Storia del Comune
LA STORIA
Le origini dell’attuale abitato di Pettorano sul Gizio risalgono all’epoca medievale, ma il territorio circostante e le alture vicine al paese vennero frequentate dall’uomo fin dal paleolitico. Ricerche condotte lungo le pendici del Monte Genzana e in varie zone circostanti hanno fornito testimonianze antichissime, soprattutto utensili appartenuti ai primi cacciatori che frequentarono e sporadicamente abitarono queste lande. Le testimonianze archeologiche rinvenute permettono di seguire nel corso dei millenni, dall’età medievale, lo sviluppo dei primi insediamenti e le attività di questi antichi abitati dell’alta valle del Gizio.Da una situazione di nomadismo legata alla caccia d’altura si passò ad attività agro-silvo-pastoriali e ad insediamenti più stabili. Nel corso dell’età del ferro avanzata (VI-V sec. a.C.) si sviluppò un vero e proprio centro fortificato sull’area collinare del Monte Mitra.
L’insediamento, preceduto certamente da una frequentazione assidua da parte dei cacciatori preistorici e protostorici, si rivela particolarmente importante per la sua estensione e per la posizione nel territorio, certamente di controllo e predominio su gran parte della Valle. Venute meno nei secoli posteriori alla romanizzazione le esigenze di difesa, si svilupparono nelle zone a valle, a nord del paese attuale, piccoli insediamenti secondo il sistema paganico-vicano tipico in queste zone in età repubblicana.
I numerosi ritrovamenti di materiale dell’età romana, soprattutto nella contrada Vallelarga, testimoniano antichi centri abitati, anche se non ci sono prove sicure sull’identificazione di tali insediamenti con il Pagus Fabianus citato da Plinio il Vecchio, come cedettero alcuni storici locali.

Tra i numerosi reperti antichi rinvenuti nel territorio o riutilizzati nel paese bisogna ricordare, oltre ad alcune epigrafi in dialetto peligno, un importantissimo frammento in greco dell’Edictum de pretiis rerum venalium, documento di carattere economico emanato nel 301 d.C. dagli imperatori Diocleziano e Galerio (in oriente) e Massimiano Erculeo e Costanzo (in occidente). Il frammento, l’unico in greco conosciuto in occidente, fu probabilmente portato a Pettorano nel corso del XIX secolo e si conserva in una casa gentilizia privata.
Al di là delle fabulae a sfondo storico rintracciabili in alcune pagine storico locali, spesso eccessivamente campanilisti, le origini del paese attuale sono da ricercare nel periodo medievale, precisamente nella fase in cui i pagi e i vici di tradizione tardoantica venivano uniti in un unico complesso urbanistico per motivi difensivi, politici ed economici. Uno storico pettoranese del XIX secolo Nicola Bonitatibus, ha così ben descritto la formazione di Pettorano: “Undeci, ed anche più si vuole che fussero le Ville, le quali, unitesi in società circa il decimo secolo, si determinarono ad eriggere Pettorano nel luogo dove al presente si vede. Lo circuirono di muri, e di torri, e lo munirono d’una fortezza, per far fronte a comuni inimici, ed agli invasori”.[Pettorano sul Gizio in una cartolina d'epoca dei primi '900] Per il Bonitatibus, quindi, le originarie vite, che avrebbero poi dato origine all’attuale abitato, potevano essere individuate nelle superstiti chiesette rurali, eredi degli antichi pagi e da lui recensite su tutto il territorio in numero superiore ad undici.
Pettorano Veduta Nord OvestFino all’ XI secolo il toponimo Pectoranum indicava genericamente una intera vallata, tanto da trovare spesso nei documenti anteriori all’XI secolo l’espressione “in valle Pectorianu”. Soltanto dal 1903 il toponimo passò a designare più precisamente il Castello: un documento del maggio di tale anno attesta infatti “Castellu qui Pectorianu bocatur”.

Nel corso dell’XI secolo si è dunque verificato l’incastellamento, termine con cui si indica la fortificazione di aggregati urbani esistenti o costruiti ex-novo, con delimitazione di un territorio giuridicamente soggetto ad un castello, inteso come concentrazione di uomini ed interessi. Le importanti trasformazioni economiche attuatesi tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo crearono i presupposti per l’incastellamento del sito.Le interpretazioni etimologiche del toponimo Pettorano sono state diverse: secondo alcuni deriverebbe da pettorale, per la forma a petto di corazza assunta dall’insieme urbanistico; secondo altri da pettorata, termine dialettale con cui si indica una rapida salita, per disegnare in questo caso il dirupo che dalla valle del Gizio sale fino al Piano delle Cinquemiglia; altri lo spiegano come derivato dal sostantivo greco preta, -as (= pietra, roccia) per indicare la natura rocciosa del sito; altri infine da Pictorianus, nome di pagus, o di un fundus legato al gentilizio di età romana Pictorius, attestato epigraficamente nel vicino paese di Introdacqua.
Alla fine del XII secolo Pettorano era la sede di un feudo che si intendeva dalla valle del Gizio verso il Piano delle Cinquemiglia e al Sangro fino alla futura Ateleta. Infatti, con i Normanni il Castello costituiva una già consolidata realtà economica e politica. A capo del feudo troviamo un certo Oddone della famiglia dei Conti del Molise.

Nel XIII secolo il Castello fu teatro di avvenimenti storici di grande interesse: nel 1229 l’esercito di papa Gregorio IX, guidato da Giovanni di Brienne, cacciò il duca di Spoleto della Marca, assediò Sulmona e conquistò il Castello di Pettorano. Qui si asserragliò Corrado di Lucinardo insieme a Roberto di Bacile (o Pacile), i quali avevano aderito al partito papale contro Federico II.
Dopo questo episodio, che dimostrò l’importanza del Castello come punto di difesa sulla via di comunicazione tra la contea del Molise e la valle di Sulmona, Federico II tentò di riportare la situazione sotto il proprio controllo nominando titolare del feudo il figlio Federico, detto di Pettorano, e facendo vigilare il territorio perché non vi dimorasse gente sospetta ed infedele. Con la venuta degli Angioini l’intero feudo di Pettorano, insieme a Colleguidone, Pitransieri, Pacentro e Roccaguiberta, fu concesso al milite Amiel d’Angoult, signore di Courbain, venuto al seguito di Carlo I d’Angiò.
Nel 1269 (tre anni dopo la vittoria di Benevento) i “traditori” che avevano parteggiato per gli Svevi vennero puniti con la confisca dei beni, ceduti poi a fedeli angioini. Tra i beni confiscati risulta anche una Bectonia di Cerrano, sita proprio nel territorio di Pettorano. Sempre nel 1269 il feudo passò ad Oderisio de Ponte, che pensò bene di donarlo alla figlia Giovanna andata sposa ad Agoto di Courbain, figlio di Amiel di Courbain.

Nel 1310 il feudo fu trasmesso ai Cantelmo, probabili discendenti dei reali di Scozia, venuti in Italia dalla Provenza Pettorano Veduta Est al seguito di Carlo I d’Angiò, i quali lo tennero per lunghissimo tempo, fino al 1750. Della famiglia Cantelmo vanno ricordati: Andrea (1599-1648) e Restaino (1653-1723), importanti uomini d’armi della loro epoca; il Cardinale Giacomo (1654-1702), potente uomo di chiesa della Napoli del ‘600; Fabrizio (1611-1658) per le opere realizzate a Pettorano. Ad essi seguirono i Montemiletto, che lo tennero sino al 1806, anno dell’abolizione del regime feudale. Il Castello di Pettorano rimase a lungo luogo di rifugio per coloro che si ribellavano al potere imperiale. In un documento del 1384 Carlo III di Durazzo ordinò al capitano di Sulmona di procedere contro alcuni “rebelles et infideles” del castello di Pettorano, i quali avevano sequestrato e liberato solo dietro riscatto un certo Coluccio de Regazio di Sulmona, fedele suddito di re Carlo.
Per tutto il XV secolo Pettorano ha costituito ancora una terra di rifugio per gli avversari del potere politico. Tale fenomeno, tra l’altro, fu favorito dal fatto che la struttura urbana era scarsamente abitata; si contavano solo 117 fuochi nel 1447, a causa della depressione economica che aveva colpito la zona: una terra di nessuno dove era assai facile di trovare asilo politico.
Nel XVI secolo la situazione cominciò a cambiare, quando nuovi edifici religiosi e civili contribuirono ad una rinascita edilizia del paese e ne definirono la fisionomia così come oggi è visibile. Il sistema della cinta muraria con le sei porte di accesso, di cui rimangono notevoli resti, vide la luce proprio nel corso di questo secolo, con un allargamento della superficie difesa e protetta dal castrum. Questa espansione edilizia, simbolo di una ripresa economica e di un assestamento della situazione politica locale, continuò anche per tutto il secolo XVII, come ci testimoniano alcuni importanti particolari architettonici.Nel corso del XVII secolo si assistette ad un vero e proprio arricchimento della tipologia architettonica, con la costruzione o la ristrutturazione dei più imponenti palazzi nobiliari del paese, nel Palazzo Croce al Palazzo Gravina, dalla Castaldina al Palazzo Vitto-Massei.

Il ruolo politico e culturale svolto dai notai, medici, avocati a partire dal XVIII secolo fu significativo: questi “professionisti” costituivano infatti gli avamposti territoriali del potere centrale. Ancor più significativa risulta la tendenza illuminista di alcune famiglie borghesi di Pettorano; la scienza e la cultura cominciarono ad essere vissute con spirito più democratico e con maggiore professionalità. In tale ambiente spicca una delle personalità più significative dell’Ottocento abruzzese, il notaio Pietro De Stephanis, che affrontò la storia locale con i metodi della critica e delle scienze ausiliarie. Il suo contributo, che va ben oltre lo studio della storia locale, fu anche di carattere prettamente civico: da amministratore riuscì nel 1865 a far approvare al Consiglio Comunale una
deliberazione contro la pena di morte, un atto di grande maturità democratica e civile, in un momento in cui non era certamente facile assumere [Pettorano sul Gizio - Veduta sud-ovest] decisioni così nette ed inequivocabili in un paese ai margini della storia. Nell’Ottocento Pettorano vede la realizzazione di importanti opere per migliorare la viabilità e favorire le comunicazioni con Napoli: il secolo XIX si apre con la costruzione di una nuova strada - la “Napoleonica”- e si chiude con l’apertura della ferrovia Sulmona–Carpinone.Nel centro abitato prende forma l’attuale Piazza Umberto I con la costruzione della Casa Municipale (1828) e la bella fontana monumentale con le statue di Antifirite e Nettuno (1897), addossata alla parete destra della Chiesa Madre. Dopo l’unità d’Italia il paese cambia denominazione e con R.D. 21.4.1863 n°1273, Pettorano assume il nome di Pettorano sul Gizio.
Dal punto di vista economico e sociale... il fiume Gizio con le attività ad esso collegate (mulini, remiere, ecc.) continua ad avere una notevole importanza, tanto da essere oggetto, soprattutto per i mulini, dapprima di aspre contese con l’ex feudatario, il Principe di Montemiletto, e in seguito di grandi tumulti per la tassa sul macinato. Ma il fenomeno economico e sociale di gran lunga più importante per Pettorano, che emerge con forza nel secolo scorso e continuerà fino a pochi decenni fa, è quello dell’immigrazione.

Nel secolo scorso l’emigrazione era soprattutto stagionale: centinaia di taglialegna e carbonai pettoranesi si recavano per gran parte dell’anno nel Lazio, in Campania e perfino in Liguria e Calabria per lavorare; alla metà del secolo più di settecento uomini migravano stagionalmente. Tale fenomeno, pur avendo origine da condizioni di arretratezza e indigenza, creò le condizioni per un forte sviluppo demografico, che all’inizio del Novecento portò popolazione a circa cinquemila abitanti, rendendo Pettorano il centro più popoloso nella Valle Peligna, dopo Sulmona e Pratola Peligna. Le migrazioni stagionali crearono un’altra conseguenza dal punto di vista sociale: l’assenza degli uomini rese liberi posti di lavoro nel settore agricolo, affidato quasi elusivamente alle donne, consentì a molti abitanti di Introdacqua di insediarsi nelle case sparse presso Pettorano, sull’attuale strada provinciale dell’ Albanese.
All’emigrazione stagionale si aggiunse nel Novecento dapprima quella transoceanica, che portò migliaia di pettoranesi in Argentina, Brasile, Venezuela, Stati Uniti e Canada, poi quella verso l’Europa e il nord Italia. Pettorano ha avuto uno dei flussi migratori più elevati di tutto il Mezzogiorno e ciò è facilmente intuibile visitando un centro storico bellissimo ma ormai spopolato, abitato da circa un decimo della popolazione stimata agli inizi del secolo.
IL CASTELLOIl castello di Pettorano sul Gizio fa parte di un sistema di fortificazione comprendente i castelli circostanti di Popoli, Pacentro, Raiano, Vittorito, Prezza e Anversa. Originariamente doveva essere composto solo dalla torre centrale di avvistamento (puntone) a pianta pentagonale, con la punta diretta verso SO, intorno alla quale fu innalzata, in epoca angioina, l’attuale cinta muraria con le superstiti due torri circolari. Delle due torri, a base scarpata per attutire l’impatto di eventuali proiettili, quella posta a SO è di maggiori dimensioni rispetto a quella posta a NO . A SE invece si può osservare una torre quadrilatera.
Fino all’XI secolo inoltrato il nome Pectoranum era genericamente un toponimo che individuava una intera vallata, tanto da trovare spesso negli antichi documenti interiori al 1021 la espressione in valle de Pectorianu. E’ soltanto dal 1093 che il toponimo è passato a designare più precisamente il Castello: un documento dal maggio1093 attesta un castellu qui pectoraniu bocatur. In questo lasso tempo (1021- 1093) è avvenuto l’incastellamento, termine con cui si suole definire il fenomeno della fortificazione di aggregati urbani esistenti o costruiti ex-novo, con la delimitazione di un territorio giuridicamente soggetto ad un castello inteso come concentrazione di uomini e interessi. E’ proprio tra X e XI secolo che si verificano trasformazioni economiche di rilievo: i signori laici iniziano il processo di erosione dei beni mobili e immobili di chiese e monasteri. Nel territorio di Pettorano un documento del 1021 attesta la rivendicazione da parte del Monastero di S. Venanzio al Volturno della usurpata chiesa di S. Comizio. Secondo quanto testimonia il Chronicon Casauriense, prima della fondazione di S. Clemente a Casauria (873) non vi sarebbero stati Castelli, e solo agli inizi del X secolo a causa delle scorrerie saracene avrebbero cominciato a costruire castelli . Chi ha costruito i Castelli? Senza dubbio, sia gli abati sia i signori laici per concessione degli abiti.

All’evento dei Normanni il Castello di Pettorano costituiva una già consolidata realtà economica e politica, tanto che alla fine del XII secolo era il perno di un feudo che si estendeva dalla Valle del Gizio verso il Piano delle Cinquemiglia, al Sangro fino alla futura Ateleta. A capo del feudo troviamo un certo Oddone della famiglia dei Conti del Molise. Nel XII secolo il Castello fu teatro di Giovanni Brienne, cacciò il Duca di Spoleto dalla Marca, assediò Sulmona e conquistò il Castello di Pettorano. Qui si asserragliò Corrado di Lucinardo insieme a Roberto di Bacile o Pacile, che avevano aderito al partito papale contro Federico II. Dopo questo episodio, che aveva dimostrato l’importanza del Castello come punto di difesa della via di comunicazione tra la Contea del Molise e la Valle di Sulmona, Federico II tentò di riportare la situazione sotto il proprio controllo nominando titolare il figlio Federico detto di Pettorano, e facendo vigilare il territorio affinché non vi dimostrasse gente sospetta ed infedele. Con la venuta degli Angioini l’intero feudo di Pettorano, insieme a Colleguidone, Pietransieri, Pacentro e Roccaguiberta, fu concesso al milite Amiel d’Angoult signore di Courbain venuto dalla Provenza al seguito di Carlo I d’Angiò. Nel 1269 (tre ani dopo la vittoria di Benevento) i “traditori” che avevano parteggiato per gli Svevi vennero colpiti con la confisca dei beni, che furono così ceduti a fedeli angioini. Tra i beni confiscati anche una Bectonia di Cerrano sita proprio nel territorio di Pettorano.
Nel 1269 il feudo passò ad Oderisio de Ponte, che pensò bene di donarlo alla figlia Giovanna andata sposa ad Agoto di Courbain, figlio di Amiel di Courbain. Nel 1310 il feudo fu trasmesso ai Cantelmo, venuti in Italia al seguito di Carlo I d’Angiò, e lo tennero per lunghissimo tempo fino al 1750, quando i Cantelmo furono rimpiazzati dalla famiglia dei Montemiletto fino al 1806.Il castello di Pettorano rimase a lungo luogo di rifugio di rebelles al potere imperiale. In un documento del luglio 1384 Carlo III di Durazzo ordinò al capitano di Sulmona di procedere contro alcuni rebelles et infideles del Castello di Pettorano che avevano sequestrato e liberato solo dopo il pagamento di un riscatto un certo Coluccio de Rigazio di Sulmona, fidelis al potere Carlo. Ancora per tutto il Quattrocento Pettorano costituiva una terra di rifugio per gli avversari del potere politico. Il XVI secolo è stato decisivo per Pettorano: la fisionomia dell’intero abitato, dominato dall’alto del Castello, ha preso consistenza nel corso di questo periodo, come pure il sistema della cinta muraria con le sei porte di accesso, di cui rimangono consistenti tracce. Il risultato di tutta questa attività edilizia è stato l’allargamento della superficie difesa e protetta del castrum, così come ancora oggi è possibile vedere.
...Dal rudere...Il Castello Cantelmo, esaurita la sua funzione imminente difensiva e militare, per secoli è stato abbandonato. L’incuria e l’azione inesorabile del tempo lo hanno ridotto ad un rudere. L’affresco di Porta S. Nicola, datato 1656, raffigura tra l’altro un Castello sulle cui torri avevano già messo solide radici gli alberi. Negli ultimi quattro secoli il castello ha subito notevoli danni e spoliazioni. Tutti i materiali di maggior pregio sono stati saccheggiati, fino alla vendita degli stemmi che impreziosivano l’edificio, avvenuta nel secolo scorso. La quarta torre che sorgeva a nord-est è andata completamente persa e sul sito dove era stata innalzata sono state costruite nuove abitazioni appoggiate al castello e addirittura incuneate in esso fino a raggiungere il puntone centrale, tanto da impedire oggi il percorso intorno al mastio.
...Al restauroIl progetto di restauro risale al 1988 all’interno del vasto programma ideato dalla Sovrintendenza dell’Aquila ai Beni Culturali
Ambientali denominato: “Sulmona città d’arte”. I lavori sono stati finanziati con la Legge 64/86 e realizzati nell’arco di sei anni dal 1992 al 1998. I lavori hanno recuperato tutto ciò che era recuperabile del castello con una attenzione particolare a non modificarne l’impianto originario. Tutti gli interventi di ricostruzione sono ben visibili ed evidenziati. Le strutture inserite ex-novo sono state realizzate con materiali completamente diversi rispetto a quelli originari. E’ stato recuperato in gran parte il percorso di guardia e sono state volutamente lasciate incomplete le parti delle quali non esisteva documentazione della struttura originaria.La destinazione d’uso
Il castello è gestito dalla società VALLELUNA soc. coop. , all’interno si trova:
Mostra “Gli uomini e la montagna” di G.Battista
Museo del territorio” a cura della Coop. ASTRA e della Riserva Naturale Regionale Monte Genzana - Alto Gizio
Sala-Museo dei Carbonai
Sala convegni 50 posti a sedere
Spazi espositivi
LE PORTE
Porta San Nicola
Conserva ancora sulla sinistra notevoli resti di un tipo di torretta di difesa circolare che in origine doveva affiancare tutte le porte cittadine. Di notevole interesse risulta l'affresco situato nella parte più alta dell'arco: vi è raffigurata, tra due colonnine terminanti a fiaccola, Santa Margherita che sorregge con la mano sinistra il paese e con la destra una croce. La raffigurazione della struttura urbana, vista da SW, risulta particolarmente realistica; infatti sul puntone pentagonale del Castello è rappresentata una rigogliosa vegetazione, visibile fino ai recenti lavori di restauro del fortilizio. L'opera potrebbe essere datata intorno al 1656, come suggerisce una targa recentemente riportata alla luce da lavori di restauro
Porta del Mulino

E' il più modesto degli accessi al paese ma assai utile in passato. Come suggerisce il nome, attraverso questo passaggio si accedeva ai mulini sul fiume, fatti costruire dai Cantelmo.
Attualmente la zona, assai suggestiva dal punto di vista naturalistico, conserva ancora i resti di queste antiche costruzioni (alcune risalenti al XVI secolo), e della ramiera ducale officina per la lavorazione del metallo.
Porta Cencio detta anche Reale o delle Manare

Le diverse denominazioni derivano da varie situazioni; il toponimo Cencia designava la piazzola antistante a forma circolare, come una cintura (dal latino cingula, cintura) realizzata su un dirupo.
L'antica denominazione di Porta delle Manere (o Manare) non ha spiegazioni sicure: secondo alcuni si potrebbe collegare con la quasi omonima Porta Manaresca di Sulmona, termine spiegabile con l'espressione latina "mane arescit" che indicherebbe l'aridità del suolo per la lunga esposizione al sole (le porte sono esposte entrambe ad oriente) oppure derivante dal nome Manerio, conte di Valva e Signore di Pace ntro.
Solo dopo il 1832, quando il re Ferdinando II di Borbone entrò nel paese attraverso questa porta, assunse il nome di Porta Reale. Nei pressi di questa porta fino a qualche decennio fa erano ancora visibili i resti di una torretta di difesa, simile a quella posta a lato di Porta S. Nicola.
Porta San Marco o delle Macchie
Era ed è tuttora l'accesso più vicino al castello. La statua che sovrasta l'arco rappresenta Sant'Antonio, posto tra due pinnacoli. Nelle vicinanze doveva trovarsi una chiesa dedicata a San Marco, ricordata in alcuni documenti, che dette il nome alla zona e alla porta. La denominazione secondaria si deve invece al fatto che da questa porta parte una strada, un tempo denominata via delle Macchie, che conduce alla Chiesa di San Rocco.Porta S. Margherita o delle Frascare
E' posta sul versante SW del paese verso le sorgenti del fiume Gizio, dalla quale parte la strada esterna per raggiungere le chiese rurali di S. Margherita e di San Sebastiano e San Lorenzo. L'etimologia popolare riconduce il nome secondario della porta al fatto che vi passassero i taglialegna per andare in montagna a fare le frasche.
I PALAZZI
Palazzo Ducale
Fu dimora principale della famiglia feudale che per secoli governò il paese, i Cantelmo. Il palazzo, che doveva essere tra i più monumentali e ricchi del paese, ha subito varie modifiche nel corso dei secoli, dovute soprattutto alle diverse funzioni (attualmente ospita il municipio) ma conserva ancora parte del suo fascino; è formato da tre corpi rettangolari uniti ad "U", con il lato aperto verso la vallata del Gizio.
Nel cortile spicca una bella fontana in pietra, decorata con motivi vegetali, fatta costruire da Fabrizio II Cantelmo nella prima metà del XVII secolo, come si legge nell'iscrizione ancora ben visibile sulla base.
La facciata principale è in parte coperta da una scalinata, alla base della quale è visibile uno stemma inciso nella pietra; sulla stessa parete è dipinta un'antica meridiana, arricchita da una cornice raffigurante i segni zodiacali ed altri elementi celesti.Il portale, ornato dallo stemma gentilizio, era originariamente sulla parete laterale e venne in seguito spostato nella collocazione attuale. Nei locali sottostanti la scalinata, ora occupati da un ristorante, si trovavano la scuderia e una cantina, della quale si conserva ancora un caratteristico torchio in legno.
La Castaldina
L'edificio era in origine la residenza dei Castaldo, amministratori della famiglia Cantelmo. Nel 1770 venne integralmente ristrutturato dal nuovo proprietario, Filippo De Stephanis, come testimonia l'iscrizione posta sulla finestra centrale.
Proprio a questo intervento settecentesco si deve il caratteristico aspetto tardo-barocco dell'edificio, con le due colonne del portale centrale che sembrano sorreggere il balcone soprastante. La facciata si presenta tripartita ed è arricchita dai particolari architettonici: i portali e le finestre sono tutti lavorati ed impreziositi da piccole finestrelle ogivali; tra le finestre del piano rialzato due nicchie abbellite da elementi vegetali dovevano originariamente contenere ulteriori elementi decorativi, purtroppo scomparsi; un grande stemma orna il portale della finestra centrale.
Tra gli elementi più caratterizzanti la struttura e pienamente rispondenti al gusto dell'epoca sono i balconi fortemente sporgenti ed arrotondati, lavorati in ferro battuto ed ingentiliti da applicazioni floreali.
Secondo una tradizione locale l'edificio sarebbe sorto sulle fondamenta di un'antica torre di difesa: la posizione, fortemente a strapiombo sulla valle del Gizio, potrebbe avvalorare tale ipotesi ma fino ad ora non ne sono state riscontrate prove certe.
Palazzo Croce
Ha mantenuto la sua struttura originaria soprattutto all' esterno e presenta due ingressi, uno su Via S. Antonio e l'altro sull'attuale strada provinciale, un tempo denominata Via Sabaot. L'interno conserva nell'atrio il prezioso frammento epigrafico dell'Edictum di Diocleziano.
Palazzo Giuliani
L’imponente edificio fu costruito nel corso del XVIII secolo: sul portale principale è scolpito lo stemma della famiglia, raffigurante un cavallo ed una croce, le iniziali del capostipite della famiglia pettoranesi (Gaetano Giuliani) e la datazione in cifre romane (1772). All’interno del palazzo è ancora conservata la bella gradinata in pietra originaria.
Palazzo Vitto-Massei
Accanto al palazzo Croce, anch'esso ha ingressi sulle due strade parallele. La magnificenza del palazzo, ancora ben conservato nei suoi elementi architettonici e decorativi originari, traduce simbolicamente la potenza economica della famiglia. Qui venne ospitato il re Ferdinando di Borbone nel 1832.
Nell'atrio del palazzo è visibile un'iscrizione di età romana rinvenuta all'inizio del XIX secolo, che riporta il nome di una sacerdotessa di Cerere e Venere, appartenente alla gens Mamia.
Palazzo Del Prete-Nola
Attualmente suddiviso in due proprietà, Del Prete nella parte prospiciente il Castello, Nola nella restante parte lungo Via Marconi. Il palazzo, databile al XVIII secolo, costituiva originariamente un corpo unico, fatto costruire o riadattare su un edificio preesistente dalla famiglia Croce, come indicano gli stemmi di tale casata presenti sopra i portali principali.
Infatti, prima di essere di proprietà dei Nola-Del Prete, l'edificio apparteneva a don Croce Croce, notaio del regno di Ferdinando di Borbone. Di un certo interesse risulta un bassorilievo lungo la prima rampa di scale nella proprietà Del Prete.
Palazzo Gravina
Edificio costruito nel XVII secolo su un corpo preesistente, le cui strutture sono ancora ben conservate e visibili nelle cantine; da notare anche una bella bifora al piano superiore. Importante componente della famiglia fu Pasquale Gravina, medico appassionato di botanica al quale venne anche dedicata una pianta, la cosiddetta Brassica gravinae.
La Locanda
E' posta poco lontano dal Castello, sulla vecchia Via Napoleonica, un luogo di sosta e ristoro per chi transitava lungo questa importante arteria viaria del Regno di Napoli e allora definita"regina viarum" proprio per il suo ruolo nella viabilità tra la Valle Peligna, il Molise e la Campania.
La Locanda era anche un luogo di rifugio per i viaggiatori, visti i numerosi pericoli in cui incorreva chi si metteva in viaggio attraverso regioni infestate all'epoca da briganti e banditi, motivo che induceva le principali compagnie di trasporto a stipulare assicurazioni per i propri passeggeri. L'edificio ha un ampio portone d'accesso sulla via Napoleonica, un tempo utilizzato dalle carrozze, sormontato da uno stemma della famiglia Croce.
Tramite un cortile interno si accede al pianterreno dove erano i servizi di ristoro e i magazzini; una gradinata conduce al piano superiore, dove erano allestite le stanze d'alloggio. Attualmente la Locanda è adibita ad abitazione privata e ristorante.
LE CHIESE
Chiesa Madre
Una chiesa dedicata a San Dionisio viene citata già in documenti di Lucio III del 1183 e di Clemente III del 1188. La ritroviamo poi citata in alcuni documenti dal XIV al XVI secolo.
Fino al 1589 viene definita chiesa madre quella in onore di San Dionisio, ma dal 1594 il titolo passa ad una non ben identificata S. Maria della Porta. La denominazione "della Porta" fa pensare alla vicinanza ad uno degli accessi cittadini e a volte viene attribuita anche a San Dionisio.
La spiegazione ditale denominazione potrebbe ricercarsi nell'urbanistica originaria del paese: in prossimità dell'attuale Chiesa Madre doveva chiudersi la più antica cinta muraria, estesa in seguito, nel corso del XVI e XVII secolo, fino alle condizioni attuali.
Bisogna forse spiegare le differenti attribuzioni pensando ad una fusione di due complessi architettonici dedicati rispettivamente a San Dionisio e a Santa Maria; l'accorpamento dovette avvenire dopo il terremoto del 1456. Da questo momento si trova infatti attestato un edificio dedicato ad entrambi i Santi. Alcune vicende posteriori della chiesa ci vengono raccontate dall'iscrizione posta sull'architrave del portale: l'edificio, dopo un incendio del 1694, subì ulteriori danni in seguito al terremoto del 1706 e la ricostruzione, iniziata nel 1718, finì nel 1728.
La zona della Chiesa Madre veniva denominata "Prece", nome derivante secondo un'etimologia popolare dal latino "preces", preghiere. Forse è preferibile ricondurre il toponimo alla parola latina "praeceps, - ipitis", che significa precipizio, pendio, data la sua posizione a cavallo delle due vallate, a est verso il torrente Riaccio e ad ovest verso il Gizio.
Da notare sul lato destro della chiesa il bel portale rettangolare traslato dal Convento del Carmine nel 1842, come ricorda la data incisa sotto lo stemma comunale posto sopra l'ingresso: la decorazione a blocchi bugnati è arricchita da figurazioni a bassorilievo di animali fantastici ed elementi vegetali, due statue di leoni a tutto tondo sorreggono l'arco.
Sullo stesso lato della Chiesa Madre venne costruita nel 1897 una fontana ornamentale con due statue in bronzo raffiguranti le divinità Nettuno ed Anfitrite e teste zoomorfe da cui sgorga l'acqua.
Chiesa di San Rocco
[L'iscrizione sulla facciata della chiesa] Fu costruita in seguito alla peste che falcidiò la popolazione nel 1656. San Rocco, protettore degli appestati, venne onorato in quasi tutti i paesi che conobbero la terribile malattia con la costruzione di una chiesa a lui dedicata. Particolare risulta la posizione della chiesa a Pettorano; infatti solitamente la chiesa di San Rocco veniva edificata fuori dalle mura urbane, mentre in questo caso l'edificio si trova nel cuore del paese. L'iscrizione sulla facciata della chiesa, un edificio dalle forme assai semplici databile alla fine del XVII secolo, esprime il terrore degli abitanti per il terribile male che li aveva colpiti e l'invocazione al Santo perché li liberi. Scendendo lungo Via Orticello, sul portale laterale della chiesa è ben visibile uno stemma bernardiniano.
Chiesa della Madonna della Libera
Fu fatta costruire nel 1680 dalla famiglia aquilana dei Vittori, come si legge nell'iscrizione posta sulla sinistra dell'ingresso. L'edificio, molto semplice nella facciata e nell'architettura, conserva all'interno un altare in marmo sormontato da un dipinto raffigurante la Madonna della Libera. Tale culto, particolarmente sentito dai cittadini della vicina Pratola Peligna, richiamava in quel luogo ogni anno molti pellegrini pettoranesi, per i quali si pensò di far costruire questo piccolo santuario.
Chiesa di S. Nicola
Si tratta di una delle più antiche chiese pettoranesi: una prima attestazione si trova in un documento pontificio di Pasquale II del 1112, confermata dai successivi documenti papali del XII secolo. Secondo la tradizione locale sarebbe stata costruita sulle fondamenta di un tempio pagano, del quale però non esistono prove certe.
Si presenta come una tipica chiesetta rurale, con interno molto semplice; un'iscrizione del XII-XIII secolo sull'architrave della facciata appartiene alle fasi più antiche dell'edificio, assai rimaneggiato nel corso dei secoli, soprattutto in seguito al terremoto del 1706.
Chiesa di San Giovanni
La più antica attestazione si trova in un documento di Lucio III del 1183 e in uno successivo di Clemente III del 1188. L'edificio attuale, semplice e modesto nelle proporzioni, non conserva nulla di quello originario che nei documenti del XVIII secolo risulta adibito a magazzino; sulla facciata, scolpita sull'architrave del portale, una iscrizione riporta la data "Die 16 iunii 1536", da riferire ad una delle ristrutturazioni operate sull'edificio.
L'interno, a pianta irregolare, è stato completamente ristrutturato di recente; si conserva una bella acquasantiera in pietra.
Chiesa di Sant'Antonio
Secondo lo storico locale Pietro De Stephanis la chiesa doveva essere inizialmente dedicata a S. Maria della Vittoria. Annesso all'edificio sacro era un ospedale per il ricovero dei poveri e dei pellegrini (xenodochio), che nel 1719 fu dichiarato luogo profano e quindi chiuso dal vescovo Francesco Onofrio, come ricorda un'iscrizione ancora visibile sulla porta dell'originaria sacrestia.
L'architettura del complesso ha subito radicali mutamenti nel corso dei secoli; in particolare la chiesa non mostra nulla dell'edificio originario, essendo stata completamente ristrutturata nel 1949.